Quanto è diffuso il mutismo selettivo?
I DATI DELLA PRIMA INDAGINE CONDOTTA NELLE SCUOLE ITALIANE
Quando si parla di diffusione del mutismo selettivo, il termine “raro” spesso lo accompagna. Ma è davvero così?
Le stime internazionali parlano di un’incidenza del 7 per mille sulla popolazione infantile, ma ancora oggi non esistono dati ufficiali a livello nazionale che consentano di affermare con precisione l’incidenza del fenomeno sulla popolazione, né tantomeno il suo andamento nel tempo.
È un dato di fatto, tuttavia, che il mutismo selettivo venga completamente ignorato dalle statistiche, nonostante sia un disturbo che influisce in maniera importante sulla salute mentale di tanti bambini, ragazzi e adulti. Le motivazioni di questa sottovalutazione del problema sono varie:
- scarsa importanza attribuita al disturbo, a causa di percentuali piccole considerate non significative,
- diagnosi cliniche che fanno in realtà riferimento ad altre tipologie di disturbo, fobia sociale in primis,
- valutazioni che tendono a normalizzare il problema, ritenendolo una forma di timidezza del bambino e via dicendo.
Tutto ciò porta senza dubbio a una sottostima del fenomeno, che invece si presenta nelle scuole di ogni ordine e grado e in maniera crescente.
Per questa ragione, A.I.Mu.Se. ha fortemente supportato la proposta di realizzare una ricerca sul campo, rivolta alle scuole di tutto il territorio nazionale (dall’infanzia alla secondaria di primo grado), al fine di fare emergere i numeri reali del fenomeno.
Dopo aver ottenuto le dovute autorizzazioni in materia di privacy, l’indagine realizzata all’interno dell’Istituto Universitario Salesiano (IUSVE) di Venezia Mestre è partita nel periodo aprile-maggio 2018, si è conclusa a giugno 2019 e ha coinvolto, attraverso un questionario compilato su base volontaria, gli insegnanti appartenenti a 268 Istituti Comprensivi di tutta Italia.
La raccolta e l’analisi dei dati ha portato a far emergere 229 casi con caratteristiche possibilmente ascrivibili al disturbo noto come mutismo selettivo, su un totale di 208.582 studenti coinvolti indirettamente. Le domande sono state formulate sulla base dei criteri presenti nel DSM 5 e nell’ICD-10 per individuare, all’interno di ogni singolo istituto, la presenza di alunni con le caratteristiche tipiche del disturbo.
Al termine dell’indagine, la percentuale di casi emersa è pari allo 0,11%, quindi significativamente superiore allo 0,07% ipotizzato all’interno delle stime internazionali.
Il primo dato che spicca è che il numero di casi problematici si concentra prevalentemente nella scuola primaria, con il 62% dei soggetti, in una fascia d’età ben precisa che va dai 6 ai 10 anni. Il dato trova riscontro nelle varie regioni italiane interessate, con qualche trascurabile differenza sui dati numerici, e questo dovrebbe portare ad ulteriori future indagini per comprendere il motivo per cui il disturbo si manifesti proprio in questa fascia d’età e in questo ordine di scuola.
Anche il rapporto tra maschi e femmine risulta particolarmente significativo, poiché la problematica sembrerebbe interessare il 63% delle femmine, rispetto al 37% dei maschi. Questi valori risultano particolarmente indicativi e non solo dal punto di vista statistico, in quanto nel manuale diagnostico americano si riporta che non ci siano prove che dimostrino che la prevalenza del disturbo subisca variazioni collegate al sesso o al gruppo etnico di appartenenza.
A questo proposito, l’indagine condotta nel territorio italiano sembrerebbe confermare invece i risultati di alcuni studi condotti nel 1998 dal gruppo di ricercatori finlandesi diretti da Kirstiina Kumpulainen, così come quelli condotti nel 1996 da Hans-Christoph Steinhausen e Claudia Juzi, che tendono a sostenere che il disturbo sia più comune nelle ragazze rispetto ai ragazzi. I dati italiani, in particolare, si avvicinerebbero più a quelli ottenuti dalle ricerche di Charles E. Cunningham (nel 2006) e di Hanne Kristensen (nel 2000), secondo i quali l’incidenza sarebbe maggiore nelle femmine rispetto ai maschi in un rapporto di 2:1.
Il 72% dei soggetti che presentano il problema è di nazionalità italiana, per l’1% non è stata fornita una risposta, mentre il 27% ha origini straniere, ma di questi l’84% risiede in Italia da più di 3 anni. Ciò farebbe pensare che la condizione di “mutismo” non sia attribuibile alla mancata conoscenza della lingua italiana, un dato che confermerebbe quanto riportato dal manuale diagnostico americano.
L’ultimo dato significativo che emerge dall’indagine è quello relativo alla percentuale di soggetti che presenterebbero le caratteristiche ascrivibili al problema, ma che non avrebbero alcuna diagnosi. Il numero di questi casi, infatti, è pari all’ 83%. Questa percentuale mostra fondamentalmente la validità dell’ipotesi formulata inizialmente, cioè che il disturbo sia sottostimato/sottovalutato, sebbene sia necessario un serio approfondimento diagnostico finalizzato a verificare se tutti i casi dichiarati siano effettivamente casi di mutismo selettivo. Appare comunque evidente che tra le scuole raggiunte con l’indagine siano stati indicati 109 studenti che presentano una seria problematica legata alla mancanza di comunicazione verbale in classe, cosa che influisce negativamente sul rendimento scolastico, come dichiarato dal 60% dei docenti intervistati, ma che per 90 di questi soggetti non sia mai stato fatto alcun tipo di diagnosi.
I limiti della ricerca sono da attribuire alle caratteristiche del campione esaminato; infatti, essendo una rilevazione a partecipazione facoltativa, la risposta data dal sistema scolastico italiano non è stata omogenea. Alcune regioni, come l’Abruzzo, hanno contribuito in modo massiccio, tanto da rendere possibile un’analisi più accurata dei dati.
Luigi Fabemoli – psicologo, autore dell’indagine condotta in collaborazione con IUSVE
I risultati completi dell’indagine sono disponibili solo per i soci A.I.Mu.Se. a questi link: