La storia di Luana

La storia di Luana

Mi chiamo Luana, ho 56 anni e vorrei raccontare la mia esperienza personale con il mutismo selettivo.

Circa sei anni fa, cercavo su internet informazioni sulla timidezza e mi si è spalancata una finestra, anzi… un finestrone. Dopo aver letto tutti i dettagli di questa condizione, sia in rete che sui libri, ho capito di averne sofferto per un bel po’, solo che l’avevo sempre chiamata “timidezza”. E’ passato molto tempo, ma nella mia mente i ricordi sono ancora nitidi. Sono ricordi di un’infanzia, di una adolescenza e di una parte della mia vita adulta che non potrò mai dimenticare, perché l‘hanno segnata profondamente.

I primi sei anni li ho vissuti ESCLUSIVAMENTE in ambito familiare: mamma, papà e un fratello di otto anni più grande. In realtà, il nucleo familiare era più esteso; infatti, mia madre si è trasferita in Toscana dalla Calabria nel 1954 per sposare mio padre, toscano. Con lei si sono trasferite una sorella, una cognata, una cugina, una nipote e una grande quantità di donne compaesane. Da quando sono nata, dunque, ho vissuto circondata da tutte queste persone.

Per quel che ricordo, ho trascorso i primi sei anni abbastanza serenamente. Ero una bambina solare, sorridente, spensierata e tranquilla. Amavo le bambole, parlavo con loro, viaggiavo molto con la fantasia e mi piaceva soprattutto far finta di leggere i giornali.   Avevo molti cugini e cugine, tutti più grandi di me. Abitavamo in una piccola frazione circondata dalla campagna. Non c’era la scuola materna, la più vicina si trovava a circa dieci chilometri, né tantomeno esistevano gli scuolabus; c’era solo la scuola elementare. Così, nessuno di noi ha frequentato la scuola dell’infanzia.

 Il primo giorno di scuola elementare ha dato inizio a quello che sarebbe stato il periodo più lungo e doloroso, dal punto di vista emotivo, della mia esistenza. Mi sentivo come Calimero: un pulcino, nero e bagnato.  All’ improvviso erano sparite la mia espressione gioiosa, la mia spensieratezza e la mia serenità.  Mi sentivo catapultata in un altro mondo, un mondo che non mi apparteneva, che non conoscevo e che mi terrorizzava.

 Conoscevo a malapena i bambini che erano nella mia stessa classe. Alcuni abitavano nel mio paese, ma   non li avevo mai frequentati prima di allora perché, nonostante la presenza di un parco a due passi da casa, nessuno mi ci aveva mai portato. I tempi erano diversi; il divertimento era un optional, non una priorità come al giorno d’oggi.

Cominciai a soffrire interiormente. Quando ero a scuola non aprivo bocca, né con i compagni né con le due maestre.  Gli altri comunicavano, ridevano scherzavano tra loro; insomma, facevano quello che, in genere fanno tutti i bambini… IO NO!  Io me ne stavo ferma al banco, in silenzio e, quando tutti facevano ricreazione, rimanevo come una statua, sempre al mio posto. Mia mamma mi metteva la merenda in cartella, e io puntualmente la riportavo a casa. Non riuscivo proprio ad aprire bocca né per parlare, né per mangiare. Avevo un nodo che mi stringeva la gola, e mi veniva spesso da piangere; per evitare di farlo, alzavo la testa per impedire alle lacrime di scendere. Ero assalita da una grande malinconia; mi mancavano le mie bambole, i miei giornali, il mio fantasticare. Insomma, volevo solo stare a casa mia.

Se per gli altri  le recite di Natale erano un momento di festa, per me erano una tragedia. Non ho mai recitato una poesia davanti agli altri. Una delle mie maestre ha sempre tentato di obbligarmi a farlo, senza riuscirci,  e un giorno ne ho capito il motivo: mia mamma la conosceva bene e, incontrandola per strada, le disse – in mia presenza- che non trovava giusto il fatto che io fossi l’unica in tutta la scuola a non riuscire a recitare. Lei mi voleva protagonista. Anche a casa mi rimproverava, mi diceva che la lingua lunga ce l’avevo solo quando mi pareva e che mi dovevo sbloccare, altrimenti tutti sarebbero stati più bravi di me.  Non si rendeva conto del male che mi faceva e, che, invece di migliorare, peggioravo. Il mio atteggiamento cominciò a cambiare anche nell’ambito familiare. Tendevo ad isolarmi più spesso, e gli unici momenti in cui mi sentivo veramente felice e spigliata erano quando giocavo e quando mio padre rientrava dal lavoro.

Per fortuna c’era l’altra maestra. Lei era più comprensiva nei miei confronti. Non so fino a che punto capisse ciò che provavo, ma almeno non mi forzava a parlare.  Tutti e cinque gli anni li ho vissuti così.

L’ingresso alle medie? Un altro trauma. Ricordo che entrai a scuola più tardi, perché a settembre dovetti subire un intervento chirurgico. C’erano alcuni compagni delle elementari nella mia classe, ma questo non mi aiutò molto. Anzi, vedere che loro avevano già fatto amicizia con i ragazzini provenienti da altre scuole mi diede un senso di smarrimento. Come se non bastasse, i miei vecchi compagni cominciarono a dire ai nuovi che io ero molto timida, che non ero come loro e che per questo mi ritenevano strana.

Tragedia su tragedia.  Mi chiusi, come sempre, nel mio guscio. Piano piano riuscii ad avvicinarmi solo a una ragazzina che, come me, non parlava e se ne stava in disparte; ma quando mi resi conto che era diventata bersaglio delle più “bullette”, che le facevano dispetti e le mangiavano la merenda, mi allontanai per paura di  incappare nella sua stessa sorte.  Per di più, se, col tempo avevo fatto un passetto avanti riuscendo a mangiare la mia merenda, da allora non la portai più.

 Non servì a molto, però. Cominciarono a prendere in giro anche me, mi chiamavano “Luana la nana”, per via della mia bassa statura  e “la nana senza lingua”, così i miei disagi aumentarono. Alle interrogazioni, alle quali fino ad allora avevo fatto la classica “scena muta”, si presentarono altri sintomi fastidiosi e invalidanti: tremore interno, battito cardiaco accelerato e un gran rossore in faccia. In quei momenti sentivo gli occhi di tutti puntati addosso. Avrei voluto solo sprofondare.

Durante le lezioni, non riuscivo assolutamente a chiedere di andare in bagno; neppure durante la ricreazione avevo il coraggio di provarci, per paura di incontrare le compagne, così finiva che rientravo a casa con la vescica dolorante e una fame da lupi.  Il mio rendimento scolastico faceva acqua da tutte le parti e, anche nelle materie in cui ero abbastanza ferrata, i risultati erano scarsi, a causa della mia bassa autostima. Non potevo illudermi che i professori potessero capirmi, nessuno poteva farlo. Se è difficile oggi, figuriamoci a quei tempi. In terza media fui bocciata, e  per me quella fu l’ennesima conferma che non ero come gli altri e che non valevo nulla.

La mia vita fuori dalla scuola era un disastro. Non mi sentivo a mio agio neanche con le poche amiche del mio paese, alle quali ero riuscita ad avvicinarmi. Per me, tutte erano migliori, spavalde, sciolte, chiacchierine…  Io, invece, ricevevo continui rimproveri da parte di mia madre e dei parenti, perché non riuscivo a sbrigare loro una semplice commissione come quella di andare a comprare il pane. Come facevo a far capire a tutti che quella, per me, non era una “semplice” commissione, ma una montagna da scalare? Come facevo a spiegare ciò che provavo, ciò che sentivo dentro, e cioè una terribile paura solo all’idea di rivolgermi al commesso del negozio per chiedere quel che volevo? Questa storia purtroppo è andata avanti per anni.

Finite le medie, davo per scontato che il mio doloroso percorso scolastico si concludesse lì, ma non avevo fatto i conti con mia madre, che mi voleva diplomata e addirittura laureata. Mi imponeva di studiare, di darmi da fare, di costruirmi qualcosa nella vita.  Tutte richieste lecite, ma lei non si era assolutamente accorta che io AVEVO BISOGNO DI AIUTO, specialmente del suo.

Con la complicità di mio fratello, scelse la scuola superiore senza neanche interpellarmi: un istituto professionale con indirizzo economico aziendale, perché si era messa in testa che dovessi diventare una segretaria d’azienda. Non mi fu concessa la possibilità di protestare e fui costretta ad arrendermi. Cominciai così un nuovo percorso, con una paura folle e il cuore colmo di infelicità.  Oltre al disagio, non capivo niente di quelle materie, forse perché non mi interessavano affatto, e ancora una volta avvenne il disastro: persi un altro anno. Alla metà del secondo, dopo che ero caduta in una crisi depressiva, finalmente mio padre si rese conto che dovevano intervenire. Mi fecero lasciare gli studi.

Tutto quello che è venuto dopo è stato altrettanto difficile. Le ali ce le avevo, ma non riuscivo a spiccare il volo. Ero ancora fragile, demoralizzata e senza speranza. Col passare degli anni, cominciai a fare dei lavoretti saltuari che mi permisero finalmente di dare il via ad una serie di cambiamenti. Piano piano divenni un po’ più loquace. Tutto questo fin dopo i trent’anni.

Il volo più alto non l’ho spiccato neanche quando mi sono sposata, ma piuttosto quando sono diventata mamma. Da allora, sono riuscita ad arrivare sulla vetta di quella montagna che mi aveva sempre trasmesso terrore e, sebbene abbia pagato un prezzo molto alto e sia stata molto delusa dalle persone che amo di più, oggi sono fiera della persona che sono. Quei giornali che tenevo in mano fin da bambina sono diventati libri, che divoro con una voracità incredibile;  la cultura è la mia sete.

 Aver capito che nella vita non è mai troppo tardi, e che non bisogna arrendersi, ha dato una bella spinta alla mia autostima. Ho perdonato tutti, non ho dimenticato niente; se le mie ali ora volano al di sopra della vetta che ho raggiunto, lo devo solo a me stessa.

Luana