Guarire dalle ferite del passato
Nel corso della nostra vita associativa abbiamo incontrato molte persone che hanno scoperto solo da adulti di aver sofferto di mutismo selettivo durante la loro infanzia. Costoro non solo non hanno mai ricevuto una diagnosi né un trattamento terapeutico adeguato ma spesso hanno sofferto anche per l’incomprensione e il poco supporto da parte della famiglia, della scuola e della società in generale.
Spessissimo nelle terapie residenziali per famiglie ci è capitato di ascoltare le testimonianze dei genitori dei bambini con MS che rivedono sé stessi nelle difficoltà dei loro figli: “Io ero proprio come lui/lei”, ci dicono, ma a quei tempi nessuno conosceva questo bizzarro disturbo d’ansia.
Fortunatamente oggi tanto i genitori quanto gli insegnanti sono molto più sensibili e attenti nei confronti dei bambini e grazie alla maggiore disponibilità e facilità di accesso alle informazioni è diventato molto più facile comprendere cosa blocca la parola e intervenire adeguatamente, ma come possiamo immaginare qualche decennio fa le cose non stavano esattamente così: per chi è stato bambino negli anni antecedenti al 2000 non sarà stato semplice convivere con il mutismo selettivo, né essere accettati in seno alla famiglia e alla società.
Le famiglie disfunzionali, con metodi educativi a volte poco adeguati, o semplicemente sprovvisti di strumenti idonei ad affrontare alcuni disturbi, purtroppo sono sempre esistite ed esistono ancora oggi. E nonostante si cerchi di dare sempre il meglio ai propri figli, sono tantissime le storie di giovani adulti incastrati in contesti domestici frenanti che impediscono la loro guarigione.
La testimonianza che segue racconta la sofferenza di una bambina incompresa di allora, che diventa donna riuscendo a superare le sue difficoltà non grazie alla famiglia ma nonostante essa. Questo può apparire un paradosso, perché di solito la casa rappresenta la zona di confort dove la parola è libera di fluire, dove ci si sente a proprio agio mentre l’esterno è il contesto ansiogeno. La storia di Manuela ci porta a riflettere che non sempre è così: a volte è proprio la famiglia il luogo che perpetua e consolida il disturbo impedendo la guarigione e il recupero, e infatti solo dopo essersi allontanata dalla famiglia di origine Manuela trova con grande fatica un suo equilibrio.
La guarigione è dunque possibile, ma può succedere che si pensi che ormai sia troppo tardi. Questa è un’altra ferita profonda che però ci si auto infligge.
Quando per tanto tempo e per troppe volte si è rimasti soli, incompresi e malvisti, quando i contesti familiari sono stati una parte fondamentale del problema, quando ci si è convinti che al resto del mondo non importi nulla, può accadere che ci si blocchi nell’idea che fare psicoterapia da grandi, a 40, 50, 60 anni, non abbia più senso perché le cose ormai sono successe. La realtà è che il passato è davvero qualcosa che non si può cambiare e se si crede che facendo terapia oggi, ciò che è stato vissuto possa mutare, è verissimo che non succederà. Il passato però può essere riconvertito, col passato si può fare come si fa con la spazzatura: si può imparare a differenziarla. Con un aiuto specialistico adeguato si po’ mandare nella discarica ciò che è rancido, affinché smetta di intossicare e imbruttire quello che nel presente e nel futuro ha invece ancora tutto il tempo e la possibilità di germogliare e crescere. Liberarsi dalle catene del passato è possibile, crederci a agire in questo senso è davvero un dono che si può fare a sé stessi.
Dal profondo della mia anima
Parole segrete
Ho smesso di parlare a 15 anni. A scuola dicevo il minimo indispensabile e a casa non parlavo del tutto. Mi faceva orrore il pensiero che le persone della mia famiglia sentissero la mia voce. Le mie parole provengono da me, dal profondo della mia anima e l’idea che la mia voce potesse entrare nelle orecchie di chi mi faceva del male, di chi doveva proteggermi e non l’aveva fatto, era insopportabile. La mia voce si è spenta poco alla volta fino a sparire del tutto. Era come se pensassi: se la mia voce non c’è non ci sono nemmeno io e se io non ci sono, nessuno riuscirà più a farmi del male.
Non parlavo mai se qualcuno della mia famiglia era presente. Avevo appena cominciato le superiori ed ero andata nella scuola dei miei sogni: l’istituto d’Arte. Ero intelligente, sono stata tra le quattro persone promosse a giugno quel primo anno, ma emotivamente ero ancora una bambina.
Avevo alle spalle un’entrata traumatica all’asilo dove la suora mi ha dovuto strappare dai vestiti di mia madre ai quali ero aggrappata disperatamente. Ero terrorizzata da quella persona che non conoscevo. Non sapevo nemmeno se mia mamma sarebbe tornata a riprendermi.
Alle elementari sono finita con la maestra più “cattiva” della scuola. Era molto anziana e aveva metodi militareschi e antiquati. Sono stati 5 anni di noia straziante e per difendermi disegnavo ovunque mi capitasse: sul banco, sui libri e perfino sulla pelle delle mie braccia. Credevo che quegli anni non sarebbero mai finiti e poi, la “bella” idea di mia madre che mi credeva stupida ed ha deciso di farmi ripetere la 5° elementare. Mentre lei mi vedeva più silenziosa e quindi più matura, io sprofondavo nella depressione più nera. Quel poco di autostima che avevo e’ stata falciata in un attimo. Stavo bene solo a casa coi miei gatti e quando giocavo con mia sorella. A casa ero un vulcano creativo, ero brillante e bravissima a inventare i giochi. Ero la preferita del mio amato babbo mentre mia madre mi criticava e mi colpevolizzava di ogni cosa.
Abitavamo in una fattoria in campagna nel vuoto della Pianura Padana e, col passaggio alle scuole superiori, trovandomi in una scuola in città, in un ambiente così caotico e aggressivo rispetto a quello che conoscevo, ho subìto uno shock. I miei genitori non hanno saputo accompagnarmi in questo passaggio, ho dovuto affrontare questo nuovo mondo da sola quando non avevo gli strumenti per farlo. Ho sofferto terribilmente, si era spenta la luce ed ero nel buio più totale.
È così che per tanti anni ho comunicato con la mia famiglia solo attraverso dei biglietti scritti. Loro hanno accettato il mio nuovo modo di essere come si accettano le disgrazie.
Certo, qualche tentativo di “curarmi” lo hanno fatto: mi hanno mandata da un pranoterapista che emanava energia dalle mani, da un mago che mi ha bruciato il cuscino per togliermi il malocchio, da alcuni psicoterapeuti che stavano lì ad aspettare che dicessi qualcosa e da uno psichiatra che mi ha dato il prozac. Ma non è servita a nulla. Ho scoperto che il mio problema “esisteva” quando ho visto il film “Lezioni di piano” a 22 anni. Quella donna era un po’ come me.. e qualche anno dopo ho letto da qualche parte queste parole: mutismo elettivo. Il soggetto non riesce a parlare anche se l’apparato vocale è intatto. Il mio problema aveva un nome, ma non potevo sapere come si risolvesse.
Il primo passo avanti è stato a 27 anni con la morte di mia nonna. Mi dispiace dirlo, ma la sua scomparsa è stato il primo grande sollievo. “Fai schifo, non sei capace di fare niente” era la frase che mi sentivo dire insieme a tante altre cattiverie. La casa al mattino era spesso teatro di liti furibonde e porte che sbattevano. Mia madre litigava con sua madre, era lei stessa una bambina non ancora cresciuta. Mio padre non diceva mai niente per il quieto vivere, anche se il vivere era tutt’altro che quieto… le mie sorelle maggiori spesso imitavano i comportamenti aggressivi di nostra nonna e di nostra madre.
Alla scomparsa di mia nonna se n’è andata una figura che mi soffocava, mi opprimeva, mi condizionava negativamente e avvelenava l’intera famiglia. Mi sono sentita alleggerita e si è acceso in me il desiderio di frequentare l’Accademia di Belle Arti. Non potevo avere un’idea migliore, sono stati anni molto belli, ma ancora non parlavo con la mia famiglia.
Finita l’Accademia, a 33 anni, ho fatto la valigia e sono andata a Londra. Ero terrorizzata, ma ce l’ho fatta! Ho preso l’aereo da sola, trovato lavoro come au pair e studiato inglese ad un college perfetto. Ho recuperato il rapporto coi miei genitori a 34 anni. Lontana dall’ambiente nevrotico sono riuscita a maturare un pensiero da persona adulta. Con altre persone della mia famiglia, invece, non sono mai riuscita. Adesso ho 50 anni, il problema si è cristallizzato, la paura si è trasformata in rabbia e disprezzo e non so se riuscirò mai a sciogliere del tutto i rancori sepolti. Mi ero pure dimenticata di avere un problema, mi hanno fatto credere che il non riuscire a parlare fosse una vergogna, una cosa da nascondere accuratamente. Mi hanno fatto sentire sbagliata e colpevole. Mi sono sentita trattata da handicappata mentale quando volevo solo smettere di essere un bersaglio per la rabbia degli altri. Volevo diventare trasparente per evitare che le persone continuassero a ferirmi. Ho nascosto le mie parole nel profondo di me stessa per proteggere il mio tesoro più prezioso. Le parole sono troppo importanti per gettarle nelle orecchie di chi capita, mentre la lingua degli altri erano lame taglienti pronte a ferire le mie orecchie e a squarciarmi a fettine come un sushi. Ho fatto di tutto per non diventare come loro ed ho nascosto le mie risposte più pericolose nel posto più segreto che potessi trovare.
Manuela