Credeteci nella bellezza dei vostri sogni…
Avevo 32 anni, un marito, 2 figli, un lavoro e 2 gatti e quella era una pacifica giornata qualunque, sembrava che niente avrebbe potuto cambiare il corso delle cose e invece mi convocarono dalla scuola del mio primogenito: “signora, abbiamo necessità di parlare con voi genitori”
Il mio piccolo era al suo primo anno di primaria: un bambino solare, dinamico, chiacchierone, educato e rispettoso, cosa mai poteva aver combinato? Andammo.
“Gentili signori abbiamo un problema: da quando è iniziata la scuola, ormai 4 mesi, il vostro bambino non ha mai parlato con nessuno. Né con noi insegnanti, né con i compagni. Abbiamo paura che possa avere un problema. È necessario il vostro intervento per aiutarci a capire”.
Fu un fulmine, però nel cielo sbagliato: “Ma come?? Non è possibile! Vi sbagliate, il nostro bambino è un super chiacchierone!”.
No. Non si erano sbagliati: il nostro bimbo a scuola era tutt’altro da quello che NOI conoscevamo, lì lui era completamente silenzioso e non avevamo nemmeno un nome da dare a questo problema.
Una condizione insolita, assurda, senza perché, e così iniziò la nostra personale maratona alla ricerca di una spiegazione.
Approdammo dapprima da un Neuropsichiatra infantile che, fatte tutte le valutazioni del caso, ci disse in modo fermo e senza dubbio alcuno che NECESSARIAMENTE il bambino aveva subìto un trauma o un abuso. A fronte di questa CERTEZZA chi potevano essere i primi “indiziati”? Noi genitori!
Riuscite a immaginare come ci si sente? Beh, io a sentirmi accusata di abuso e violenza nei confronti di mio figlio, ho provato un dolore sordo, insopportabile, e non avevo nessuno strumento per dimostrare che quello era un addebito del tutto inverosimile.
Parlammo allora con la sua pediatra e lei, che ci conosceva da diverso tempo e sapeva bene che non poteva esserci stata nessuna violenza sul bambino, trovò quel silenzio insolito, dovevamo cercare un’altra spiegazione a quella strana condizione. Fu la pediatra a parlare con il neuropsichiatra e farlo desistere dal segnalarci ai servizi sociali. Sì, stavamo rischiando anche quello.
Stiamo parlando di una realtà che qualcuno forse conosce e qualcun altro teme, ma la verità è che oltre vent’anni fa non era affatto facile collegarsi in rete e digitare “bambino che non parla a scuola” e trovare una risposta. Le connessioni (per chi poteva usufruirne) erano lentissime e i contenuti molto differenti da quelli ai quali ci siamo abituati attualmente.
Iniziammo così una terapia settimanale con un’altra neuropsichiatra infantile. Tutte le settimane ci trascinavamo a fatica in quello studio e affrontavamo un’ora di strazio, di silenzio pesante, doloroso e congelante per nostro figlio, e di colpa più o meno velata per noi che affrontammo un percorso di coppia per scovare gli errori personali o genitoriali che CERTAMENTE avevano causato tutto questo.
Un’ora la settimana, moltiplicata per tante settimane, con la sola conclusione di non avere mai avuto né una diagnosi né un miglioramento.
Lo ricordo come un periodo molto offuscato, incerto e doloroso, permeato da una solitudine profondissima e con la costante incertezza di non riuscire a dare un nome ad un problema che amplificava tutto.
Nemmeno i familiari capivano, i genitori degli altri bambini facevano domande imbarazzanti e noi, per contro, non avevamo nessuna risposta, salvo continuare a sentirci sempre peggio, a disagio e sbagliati.
Ricordo un giorno in cui in lacrime dissi alla neuropsichiatra: “Immagino mio figlio a 40 anni, senza lavoro, senza amici, senza una ragazza, buttato su un divano a non fare niente, impossibilitato ad interagire con il mondo e obbligato a farsi mantenere da noi genitori”.
Mi rispose: “Signora lei dovrebbe scrivere tragedie greche!! Provi invece a mettersi in gioco, a cercare soluzioni, a proporre alternative. Forse non troverà subito la strada, ma certamente vedrà tutto da una nuova prospettiva”.
Ed è con l’idea di nuove prospettive che iniziò una collaborazione con la scuola: al fine di rendere possibili le valutazioni didattiche del bambino, concordammo con l’insegnante che sarei andata lì tutti i giorni oltre l’orario e che avremmo fatto le verifiche con la mia mediazione.
Quasi tutti i pomeriggi arrivavo a scuola mentre gli altri bambini andavano via, la maestra usciva dalla classe e si appartava dietro la porta, mi lasciava un elenco con le domandine da fare e poi si metteva ad ascoltare stando in silenzio. Fu così che le arrivò chiara, oltre il legno che la separava da noi, la voce del mio piccolo che ripeteva poesie, leggeva ad alta voce, contava e svolgeva serenamente (e aggiungerei abilmente) tutti i compiti assegnati.
All’epoca non c’erano BES, PDP, né altri strumenti che tutelassero bambini come mio figlio, che per giunta non aveva nessuna diagnosi precisa se non quella di Disturbo Post Traumatico da Stress in seguito a “eventuale maltrattamento”. Quella maestra rispettò la sua funzione fino in fondo e in quel periodo mio figlio ebbe la sua valutazione didattica, quella meritata a fronte di uno studio che il bambino non mancava di fare.
Gli anni sono passati e internet migliorava velocemente, così un bel giorno ho digitato sul PC “il mio bambino non parla a scuola” e sono entrata in un blog, dove altri genitori descrivevano la stessa problematica.
Tremo ancora forte quando ripenso a quel giorno e tremo anche in questo momento nello scriverlo.
Le risposte nel blog rimandavano alla lettura (rigorosamente solo in inglese) di alcune Faq scritte da Elisa Shipom- Blum, una studiosa statunitense che parlava di un disturbo chiamato Mutismo Selettivo.
Stampai tutto e non convinta del mio inglese stentato, feci 40 km in auto per raggiungere una cugina che lo sapeva tradurre a dovere. Scoprii quel giorno l’esistenza di questa realtà, riconobbi mio figlio in ogni virgola scritta su quei fogli, FINALMENTE avevo un nome da dare a quel silenzio e, soprattutto, per la prima volta in tanti anni non mi sentivo più sola: c’erano loro, i genitori del Blog, che erano arrivati a quella stessa schermata perché come me avevano vissuto l’infinta incertezza, la stanchezza, la paura, il senso di abbandono e l’impotenza.
Non c’era solo questo ad unire quei genitori, c’era anche una spinta forte verso la ricerca di nuove prospettive, e così ci fu la scelta di condividere le esperienze e creare Aimuse: l’Associazione Italiana Mutismo Selettivo che voi adesso conoscete così bene.
Aimuse nel tempo ha cercato di accogliere tutte le famiglie, i bambini, i ragazzi, gli adulti che vivono questo disturbo; ha cercato di capire e di creare strumenti come la Guida Momentaneamente Silenziosi, di raggruppare contenuti aggiornati (sito, opuscolo orientativo, bibliografie, articoli etc.), di fare divulgazione mirata (incontri, seminari, dibattiti, informazione, contenuti social), di promuovere formazione per specialisti e per insegnanti, di favorire il confronto clinico con le tavole rotonde e poi di agire direttamente con approcci innovativi, da qui le vacanzine terapeutiche residenziali, le tendate, le merende, la caccia la tesoro, gli incontri di ippoterapia… Potrei continuare per ore a descrivere tutti gli obiettivi realizzati, tutte le persone raggiunte e tutti i bambini, ragazzi, genitori che hanno preso la nostra mano e sono arrivate fino in fondo al tunnel.
Potrei scrivere parole su parole per raccontare le emozioni meravigliose, gli aneddoti divertenti, le commozioni e le sorprese oltre ogni immaginazione, potrei descrivere con mille e mille dettagli anche i tanti problemi, la rabbia e la frustrazione per chi ad Aimuse chiede e non ringrazia, per chi dai volontari prende e non ricambia, per chi usa l’arroganza anziché la gentilezza, ma nulla di tutto il dolce e l’amaro che potrei raccontare renderebbe giustizia alla favolosa, faticosa, incredibile strada che mi ha portato fino a qui. Posso però scrivere che quella giornata qualunque è diventata la prima di una nuova fase della mia vita; nessuno dei traguardi raggiunti, considerati oggi “scontati” per tanti, era anche solo lontanamente immaginabile.
Da tantissimi anni io sono una volontaria Aimuse e non dimentico di ringraziare mio figlio, perché il suo malessere ha portato con sé un’opportunità: io sono cresciuta con lui e grazie a lui ho imparato il dono della pazienza, della perseveranza, della costanza, del donarsi al prossimo e del possibile nonostante tutto.
E allora…credeteci nella bellezza dei vostri sogni, perché se si sentono accolti corrono perfino il rischio di avverarsi!