Conflitto e ansia nel processo di integrazione dei bambini stranieri con MS – di Caterina Mirella Donato
Vivere in una società multiculturale, come la nostra, presuppone un lavoro costante e non sempre
facile di integrazione e riadattamento di sollecitazioni e suggerimenti provenienti da estrazioni
diverse. Quando questo compito diventa particolarmente gravoso nell’incontro con un
bambino/ragazzo predisposto (per fattori temperamentali, genetici, ambientali) il MS appare
maggiormente sovraccaricato da un sensazione di tradimento e smarrimento. Con l’obiettivo, infatti,
di predisporre un futuro migliore per i propri figli, molti genitori stranieri iniziano un percorso
migratorio che li porterà in un nuovo paese. Ma, nonostante questa scelta, risulta per loro compito
assai impegnativo facilitare un sereno inserimento nella società ospitante. Ancora addolorati per lo
“strappo migratorio”, alcune famiglie straniere vivono il proprio dolore in una forma intima e
completamente ripiegati su se stessi. Mantenere poi tradizioni del proprio paese (cucina,
abbigliamento) senza per questo integrarle con quelle del nuovo, alimenta un pensiero nostalgico
completamente rivolto al passato e al dolore di ciò che si è perso. Per questo motivo, i bambini
stranieri faticano ad avere successo nel nuovo contesto: il bisogno dei genitori di rimanere
abbarbicati al passato si scontra con la necessità di dare un senso al sacrifico migratorio. Il futuro di
queste nuove generazioni “culturalmente fluide”, infatti, sarà il risultato di un sereno processo di
integrazione tra vecchio e nuovo, tra passato e futuro. Nella mia esperienza clinica, più volte mi è
capitato di incontrare bambini inconsapevolmente coinvolti nella ricerca di equilibrio tra l’apertura
verso il nuovo e il rivolgimento verso le loro origini. Trovandosi al centro di un vero e proprio
conflitto di lealtà, non resta quindi che chiudersi nel silenzio che sembra costituire l’unica scelta
possibile per non deludere le aspettative altrui. I genitori dal canto loro, in buona fede, non
sembrano rendersi conto di messaggi fuorvianti che tendono a confondere i loro bambini. Ad un
atteggiamento teso ad incoraggiarli verso il successo scolastico, si contrappone la fatica di vedere i
propri figli assumere comportamenti e godere di amicizie altre che poco hanno a che vedere con
quelle del paese d’origine. Cosa fare allora per aiutare queste famiglie? In generale è sempre bene
ricordare che la via maestra per uscire dal MS è sempre il lavoro di rete. A vario titolo, infatti, tutti
coloro che lavorano con i bambini con MS hanno quasi l’obbligo di lavorare a “porte aperte”. Il
continuo confronto del clinico che prende in carico il bambino/ragazzo con la scuola e con la
famiglia risulta la strategia vincente per favorire l’integrazione di contesti di vita che confluiscono
tutti insieme nell’esistenza del bambino/ragazzo con MS. Alla scuola quindi si chiede di avere un
atteggiamento autorevole nei confronti di queste famiglie che continuano a soffrire per lo strappo
migratorio ma che, allo stesso tempo, devono arginare il loro dolore evitando di riversarlo sui
bambini. La scuola inoltre dovrebbe superare l’idea che l’integrazione sia aderire al contesto
ospitante, ma ragionare nell’ottica secondo la quale anche chi proviene da un altro posto ha qualcosa
da insegnare. Dal punto di vista dell’apprendimento, infatti, sono ancora molti gli insegnanti che
chiedono ai genitori stranieri di parlare la lingua del paese ospitante non rendendosi conto che,
come affermava Contento, “la lingua è la pelle dell’individuo e chiedere di cambiare lingua è come
chiedere di cambiare pelle” (2010). Non rimane quindi che favorire uno scambio equilibrato tra chi
“arriva” e chi “ospita” nell’ottica di una crescita in grado di “contagiare” tutti. Alle famiglie
migranti, invece, va chiesto di compiere piccoli sforzi comunicativi di fronte ai propri figli,
conversando e socializzando con gli autoctoni e partecipare ad eventi che prevedono occasioni di
scambio tra culture (feste della scuola, assemblee scolastiche). In ultimo e non meno importante, il
clinico ha il compito di ricordare per se stesso e per gli altri che il superamento di questa difficoltà
transitoria è frutto di un lavoro “di messa a proprio agio” del paziente, quindi puntare alla serenità
durante il tempo della seduta terapeutica tenendo fuori dalla porta la preoccupazione del “io ti farò
parlare”. E’ bene infatti ricordarsi che solo un lavoro che punta alla sicurezza e al rafforzamento
dell’autostima può essere in grado di “rompere il muro del silenzio”. In ultimo, e non meno
importante, il clinico deve sempre favorire il dialogo tra lavoro terapeutico, la scuola e la famiglia
del proprio paziente. In fondo anche questa si chiama Integrazione!
Caterina Mirella Donato – psicologa, psicoterapeuta della rete Aimuse